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DI MARCO DEGL’INNOCENTI
MONACO DI BAVIERA – Dieci anni fa, il 29 dicembre 2013, Michael Schumacher fu vittima del terribile incidente di sci sulle nevi di Méribel, in Francia. Da quel giorno il sette volte campione del mondo di Formula 1 non è più apparso in pubblico. Sulle sue condizioni di salute ci sono state soltanto sporadiche, azzardate, speculazioni. Le ultime informazioni attendibili sono quelle rilasciate da Jean Todt al quotidiano sportivo francese L’Equipe. Todt era il capo del Team Ferrari ai tempi di Schumi, è rimasto legato a lui da profonda amicizia, ed è uno dei pochissimi all’infuori della stretta cerchia famigliare a poter avere un contatto diretto con l’ex pilota: «Purtroppo il destino lo ha colpito, non è più il Michael di prima, quello che conoscevamo. È diverso, la sua vita è diversa. Ma Michael c’è, quindi non mi manca. È magnificamente guidato dalla moglie e dai figli che lo proteggono. Ho il privilegio di poter condividere momenti con lui. Questo è tutto quello che c’è da dire».
Ma Schumacher non è stato certamente dimenticato. Lo testimonia il documentario-omaggio dedicatogli dal primo canala pubblico della televisione tedesca ARD, che sta andando in onda proprio in questi giorni. Realizzato da Andreas Troll, noto giornalista sportivo dell’emittente che ha praticamente seguito Schumi in tutta la sua carriera, si articola in cinque puntate. Il titolo, in inglese, è “Being (essere, n.d.r.) Michael Schumacher”.
Una lunga carrellata di immagini – molte inedite – e di inserti di testimoni e co-protagonisti del percorso sportivo dell’ex pilota, che comincia dalla vecchia pista di Kerpen, gestita dal padre Rolf. Si susseguono le prime vittorie in F1 con la Benetton con i due titoli iridati, i cinque allori mondiali con la Ferrari, l’addio ai GP con la rossa nel 2006, il ritorno in F1 con la Mercedes nel 2010. Anche il dramma di Méribel viene evocato, naturalmente: ma con pochi, freddi, spezzoni di cronache di quel 29 dicembre 2013.
Nel documentario si alternano i ricordi del fratello Ralf, anche lui pilota di Formula 1, di Gerhard Noack, che lo scopri sui kart e lo lanciò nella prime gare con le auto da corsa. Di storici manager e direttori sportivi della F1 come Jean Todt, che lo portò e lo guidò alla Ferrari, Norbert Haug, ex Mercedes, Ross Brawn, che lo condusse ai trionfi iridati alla Benetton ed alla Ferrari e lo volle di nuovo con sé nella meno fortunata parentesi finale di carriera in Mercedes. Non poteva certo mancare la testimonianza di Luca di Montezemolo, che di Schumi dice: «Nella vita è sempre importante guardare ai risultati. Michael ha fatto qualcosa che nessun altro ha mai fatto non solo il Formula 1 nella sua storia, ma nemmeno alla Ferrari».
Di Michael parlano ex piloti come David Coulthard e Sebastian Vettel, ma anche rivali di allora ancora in pista come Fernando Alonso e Lewis Hamilton. L’ideale filo conduttore del documentario è, però, tessuto da alcuni noti giornalisti sportivi tedeschi della carta stampata e della tv che ne hanno seguito per anni le vicende. Ai quali si aggiungono ricordi e considerazioni di Sabine Kehm, prima addetta stampa, poi manager del campione e oggi gelosa custode della privacy di Schumi e della sua famiglia. Ma ricorrono anche, numerosi, gli inserti in cui lo stesso Michael rievoca e “chiosa” proprio alcuni di quei momenti topici della sua storia sportiva e umana. Uno Schumacher che si presenta ora molto giovane, ora già nella sua maturità, che parla con tono sereno, il sorriso quasi sempre vagamente accennato. Ma che in alcuni brevissimi spezzoni resta in silenzio. Quasi che allo spettatore tocchi il compito di riempirlo, quel silenzio che lascia un gusto amaro in bocca.
Ovviamente un capitolo a sé è dedicato al suo periodo alla Ferrari: “Rot”, rosso in tedesco, è il titolo della puntata. È il colore nel quale si trasfondono le immagini delle vittorie, ma soprattutto l’entusiasmo universale dei tifosi: a Kerpen la sua città d’origine, a Maranello. E proprio da Maranello, anzi dalla limitrofa Fiorano, c’è la testimonianza più toccante. Quella di Rossella Giannini, titolare del ristorante Montana, che orgogliosamente ricorda come il suo locale fosse la seconda casa di “Maicol”. Ne pronuncia il nome all’inglese, come lo chiamavano del resto tutti in Ferrari: «Non c’è parola per lui. Perché tutte le più belle parole, i più begli aggettivi, li ha proprio lui: bello, buono, simpatico, bravo, intelligente, educato. Questo ERA Maicol». Quell’imperfetto, “ERA”, risuona nel sottofondo in italiano delle parole di “mama Rosella” – come la chiamava affettuosamente il ferrarista – e la traduzione tedesca che scorre in sovrimpressione lo riporta con fredda fedeltà: “das WAR Michael”. Un imperfetto certamente riferito agli anni passati, ma che dà un tocco di tristezza in più al generale sentimento di profonda nostalgia che emana da questo documentario, che sembra quasi un lungo, struggente addio. Chissà se sarà proposto anche in Italia?
Nella foto (privata): una delle ultime interviste dell’autore a Michael Schumacher con il team Mercedes F1