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DI MARCO DEGL’INNOCENTI
MONACO DI BAVIERA – Cinque anni fa, il 20 maggio 2019 moriva Niki Lauda. Tre volte campione del mondo di Formula 1, due titoli vinti con la Ferrari. Il mio omaggio al grande pilota austriaco è il ricordo delle circostanze, davvero particolari, nelle quali si svolse la mia prima intervista con lui, pubblicata sulla “Gazzetta dello Sport”.
Era anche quello un giorno di maggio: il 10 maggio del 1977. Neppure un anno dopo il terribile incidente del Nürburgring (1. Agosto, 1976 n.d.r.), quando il pilota austriaco della Ferrari era scampato al rogo della sua monoposto, recuperando poi a tal punto forze e morale da vincere nella stagione successiva il suo secondo titolo mondiale. Ma l’8 maggio di quel 1977 era sembrato, invece, che la sfortuna si fosse accanita di nuovo e in modo stavolta definitivo, su di lui. Nel “warm-up” – la cosiddetta sessione di riscaldamento che allora precedeva il via delle gare – del GP di Spagna, sul circuito di Jarama, a causa di un rimbalzo della sua monoposto su un’irregolarità dell’asfalto della pista, Niki si procurò la frattura di una costola e fu costretto a rinunciare alla partenza.
La notizia mandò in costernazione i tifosi ferraristi e in subbuglio la redazione della “Gazzetta”. Per chissà quale motivo, ma forse proprio per la solita ragione che – almeno allora – ero l’unico tra i redattori a conoscere il tedesco e che quindi avrei potuto verosimilmente accedere a qualche informazione diretta in più, la direzione decise di spedire me sulle tracce dello sfortunato pilota.
Ovviamente non sapevo da che parte cominciare a cercarlo, quando arrivai a Salisburgo, dopo un “depistaggio” a Vienna, perché si era sparsa la voce che Lauda si fosse fermato nella capitale per un controllo da uno specialista di fiducia. Così cominciai a chiedere a poliziotti, negozianti, ma anche semplici passanti lungo la strada dove abitasse il pilota. Ingenuo? Allora funzionava anche così. Alla fine riuscii a raggiungere la villa che il ferrarista si era fatto costruire da poco e nella quale abitava con la prima moglie Marlene. Una costruzione isolata, moderna, dalle linee semplici, su un poggio verde, vista sui circostanti prati e boschi. Un vero idillio. Quando mi presentai l’accoglienza fu, però, tutt’altro che amichevole. Un paio di domestici cercarono di mandarmi subito via, dicendo che il padrone di casa non solo non c’era, ma da mesi non si faceva vedere. Io non mi lasciai impressionare e parcheggiai la mia vettura appena qualche metro dall’ingresso. Faceva caldo, ero stanco, mi addormentai sul sedile. Fui svegliato dai latrati di un cane, un grosso alano che poi seppi si chiamava Bagheera, come la pantera del Libro della Giungla, che sporgeva il muso, anzi le fauci aperte con tutti i denti in bellavista, dalla ringhiera di una terrazza al primo piano.
Accanto alla belva un Niki Lauda in tenuta casalinga, piuttosto seccato per l’improvvisa visita. Altro che benvenuto, le sue parole: «Ma cosa vuole da me, perché non mi lascia in pace, non ho niente da dire!». Riuscii, però, a non farmi cacciare subito. Lo incalzai con la prima domanda, circa le sue condizioni, alla fine una specie di intervista, pur se davvero su due piani diversi, lui in terrazza, io sotto, venne fuori. Per fortuna riuscii a fargli dire che di lì a meno di una settimana sarebbe andato a Fiorano, sul circuito della Ferrari, per provare la vettura, e che se tutto fosse andato bene avrebbe successivamente corso a Montecarlo. Poi mi congedò piuttosto bruscamente, senza scomodarsi a scendere e uscire di casa per darmi la mano.
Scrissi quell’intervista cercando di restare il più possibile neutro, ma la freddezza con cui riportai il dialogo e un paio di accenni sarcastici alla strana situazione nella quale mi ero trovato, non piacquero troppo alla direzione della “Gazzetta”. In poche parole fui accusato quasi di lesa maestà nei confronti del mito ferrarista. Per la cronaca: Niki Lauda disputò il GP di Monaco, piazzandosi secondo dietro al sudafricano Jody Scheckter, che allora pilotava una monoposto esordiente, l’anglo- canadese Wolf. Dopo avere, come già detto, rivinto il titolo mondiale con la Ferrari, l’austriaco passò inopinatamente alla Brabham-Alfa Romeo.
Ironia della sorte, me lo ritrovai difronte in occasione dell’ufficializzazione del suo contratto con la nuova scuderia. Sempre in circostanze decisamente fuori del normale. Già allora era nota la passione di Lauda per il volo. Niki non aveva ancora fondato la sua prima compagnia aerea, ma era già un esperto pilota. Ai comandi di un piccolo jet executive atterrò la mattina del 15 settembre 1977 sulla pista dell’aeroporto romano di Ciampino. Ovviamente era atteso da decine di giornalisti. Io però riuscii a intrufolarmi oltre i controlli – allora praticamente inesistenti, soprattutto nella zona cosiddetta vip – ad attraversare a piedi il piazzale e ad arrivare sotto la scaletta del jet. Quando Lauda sollevò il piccolo portellone della carlinga, a distanza di pochi mesi dal nostro burrascoso incontro di Salisburgo si ritrovò di fronte proprio me: il primo a dargli il benvenuto nella sua nuova avventura. Ebbe una reazione di stizza, mi fece un brusco cenno di allontanarmi e io capii che quella volta non sarei riuscito ad andare oltre. Così dovetti accontentarmi della conferenza stampa ufficiale, poche ore dopo.
Sarebbero dovuti trascorrere più di vent’anni prima che Lauda ed io riprendessimo a incrociarci regolarmente, per quasi due lustri, sui circuiti della F.1 di mezzo mondo. Incontri cordiali, ma sostanzialmente mai oltre il formale, mai al di là dello lo stretto necessario alle mere esigenze professionali. Mai neppure un accenno a quei due lontani episodi, nemmeno per scherzarci sopra. Ma ho sempre avuto la sensazione che non se ne fosse dimenticato. E chissà perché non era una sensazione piacevole.