Boris Becker, uno dei più grandi tennisti e sportivi in assoluto della storia, sta vivendo la pagina più nera della sua vita: condannato da un tribunale di Londra per bancarotta fraudolenta dovrà scontare due anni e mezzo di carcere ed è già in prigione. Ripropongo qui il racconto di un episodio molto particolare della vita di tutti i giorni dell’allora giovanissimo campione, tratto dal mio libro: “Non volevo fare il giornalista sportivo”.
DI MARCO DEGL’INNOCENTI
Nel 1985 un diciassettenne tedesco dai capelli rossi vinse il più importante torneo di tennis del mondo: Wimbledon. Si chiamava Boris Becker. Fino allora praticamente sconosciuto, Boris continuava a vivere con la famiglia a Leimen, cittadina vicino Heidelberg. E con i suoi trascorreva ancora le vacanze di Natale. Come sempre in montagna. Come sempre in Italia, come sempre in Val Gardena, sempre nel solito hotel. La dritta che ci sarebbe tornato anche quell’anno era puntualmente arrivata alla redazione della Gazzetta dello Sport e naturalmente, perché conoscevo il tedesco e perché in fondo Bolzano -la città ove allora vivevo – era distante poco più di una quarantina di minuti da Santa Cristina, la località turistica ove il tennista ed i suoi avrebbero passato le feste, fui incaricato di raccontare la vacanza italiana del nuovo grande personaggio dello sport mondiale.
Il problema era che i Becker non avevano ovviamente alcun piacere a rendere noto il loro soggiorno dolomitico, che avrebbero voluto si svolgesse nella massima privacy. Così quando mi presentai in uno degli alberghi più belli e di più antiche tradizioni del paese cercai di spacciarmi come un turista qualsiasi. Nell’hotel, a parte i Becker e il loro nutrito gruppo di amici e parenti, undici persone in tutto, non c’erano altri ospiti tedeschi. Fatto un po’insolito, per quelle zone. La maggior parte degli altri clienti, italiani del centro sud, laziali, marchigiani, napoletani, anche qualche siciliano, non si era neppure resa conto della presenza del vincitore del prestigioso torneo inglese.
Io cercai subito di entrare in contatto con il piccolo clan del tennista. Non fu difficile. Cominciai con l’attaccare discorso con gli amici del campione, poi qualche convenevole con un uno zio, fino ai sorrisi scambiati con mamma Elvira ed un paio di battute di circostanza con papà Karl-Heinz. La sera Boris e i suoi giovani amici si riunivano nella hall e giocavano a carte. Io scambiavo qualche parola sul più e sul meno con loro, ogni tanto anche Boris alzava gli occhi dalle carte e mi rispondeva a tono. Questa manfrina per un paio di sere di fila. Naturalmente non mi ero presentato come giornalista neanche al padrone dell’hotel, al quale comunque avevo maieuticamente strappato, facendo finta di niente, qualche dettaglio sulla permanenza degli ospiti tedeschi. «La famiglia viene qui da noi puntualmente da quasi dieci anni, ma guardi – mi disse il signor Albert, il proprietario, mostrandomi una lettera – questa l’ha scritta proprio il padre di Boris per prenotare le stanze per i suoi ed alcuni amici. Vede, si raccomanda che il figlio venga lasciato in pace, soprattutto dalla stampa».
La stampa, almeno quella italiana, in quei giorni semmai era maggiormente interessata a un altro illustre ospite della Val Gardena: Sandro Petrini. L’ex presidente della repubblica aveva concluso da pochi mesi il suo settennato al Quirinale, ma era tornato, con la moglie Carla, a Selva. Non più nella foresteria del centro addestramento alpino dei carabinieri, nella riparata e protetta Vallunga, come durante la presidenza, bensì in un albergo normale, quasi come un turista qualsiasi. Che scoop sarebbe un incontro tra Becker e Pertini, fu il pensiero mio e della redazione. In effetti anche quelli dell’azienda di soggiorno locale avevano pensato che sarebbe stato un bel colpo pubblicitario. E l’evento fu ad un passo dal realizzarsi
Una bella mattina di sole, il 27 dicembre, Boris era sceso tardi nella hall dell’albergo. Il suo gruppo era già andato a sciare, lui aveva dormito più a lungo dopo aver fatto le ore piccole in una discoteca. Indossava una tuta da sci di fondo. Strano, pensai vedendolo scendere dalla camera, mi avevano detto che non sciava, per motivi di sicurezza. Ma forse non riteneva il fondo troppo pericoloso per le sue gambe. Ed eccolo, di lì a qualche minuto, sull’anello del Monte Pana, proprio sotto il massiccio roccioso del Sassolungo, che domina la valle. Io avevo seguito il suo piccolo gruppo cercando di non farmi vedere e soprattutto riconoscere. Boris infilò gli sci e, insieme con il padre e un amico, affrontò la pista. Con uno stile e una tecnica niente male. La mamma, Elvira, invece, restò a prendere il sole sulla terrazza di un albergo dove il gruppo aveva occupato un tavolino.
Pochi minuti dopo arrivarono due campagnole blu dei carabinieri. «Ecco Pertini! Ecco Pertini!» si misero a gridare dieci, cento voci. E fu tutto un affannarsi di gente verso le vetture militari. In una delle jeep c’era proprio l’ex capo dello stato, accompagnato come sempre dall’inseparabile tenente colonnello Giancarlo Maffei, il comandante del centro addestramento alpino dell’Arma, che continuava a fare da amichevole e attento chaperon all’illustre ospite. Il presidente entrò nel rifugio per bere un caffè. Mi avvicinai a lui, che avevo già incontrato e con il quale mi ero intrattenuto, sempre con una certa emozione, durante i suoi precedenti soggiorni in Val Gardena, chiedendogli: «Presidente, sa che lì fuori scia Becker, il nuovo giovane astro nascente del tennis?». «Ah, sì ho piacere…lo conosco, lo conosco – rispose con il suo tono asciutto – è bravo, è bravo…» Doveva conoscerlo sul serio, perché qualche secondo dopo accolse con gioviale famigliarità “Frau”
Elvira, che era andata a sua volta a salutarlo. Ma il figlio campione non arrivava, continuava a sciare e Pertini, un po’stanco risalì sulla campagnola per tornare in albergo. Quando a Becker fu riferito del mancato incontro con Pertini, avrebbe detto, stando ai testimoni: «Ma chi è?».
Anch’io tornai nell’hotel dove mi accolse una sorpresa. O forse neppure tale. Il padrone aveva scoperto chi fossi. Ovviamente non poteva cacciarmi, ero un regolare ospite pagante. Ma mi sputtanò con Becker senior, che andò su tutte le furie. E mi dovetti prendere una bella serie di contumelie: «Si vergogni, ha tradito la nostra fiducia, l’abbiamo accolta quasi come un amico nel nostro giro…» e via dicendo. Ormai avevo da scrivere più di quanto mi serviva. Missione compiuta. Purtroppo, però, il fatto che un giornalista si fosse un po’furbescamente intrufolato nella sua privacy aveva irritato Boris, che si rifiutò di partecipare a una piccola cerimonia organizzata in suo onore dal sindaco. Il giorno dopo, quello che era stato già ribattezzato “Bum -Bum” per la potenza dei suoi colpi, riprese la strada per la Germania.